Nell’arte di Francesca Banchelli convivono mondi diversi, uniti da una visione profonda e inclusiva della realtà. Formatasi tra Firenze e Londra, Banchelli ha plasmato il suo approccio artistico attraverso un percorso internazionale fondamentale per sviluppare una visione ampia dell’arte, esplorando nuovi linguaggi. Il volume “Afternoon” (Metilene Edizioni, 2024), nato dal progetto omonimo a cura di Angel Moya Garcia e sviluppato nella suggestiva cornice della Tenuta Dello Scompiglio di Lucca, incarna tutta la sua capacità di integrare pittura e performance, creando installazioni immersive che indagano il concetto di tempo. Prossimamente Banchelli sarà tra le protagoniste della mostra “Colorescenze. Artiste, Toscana, Futuro” in programma al Centro Pecci, a partire dal 28 giugno, dove porterà un lavoro che indaga la necessità di tornare a incontrarsi, a unire territori e persone in un dialogo artistico che guarda oltre i confini e i tempi.
La tua formazione internazionale tra Firenze e Londra ha plasmato il tuo approccio artistico? In che modo?
Sì, la mia formazione tra Firenze e Londra ha avuto un impatto significativo sul mio approccio all’arte. La mia prima esperienza all’estero è stata a Londra, una città dal respiro profondamente internazionale dove mi ero traferita nel 2009 per frequentare l’MA Fine Art alla Central Saint Martins. Londra è una città caratterizzata da tolleranza, apertura, multietnicità, elementi che cercavo uscendo da Firenze. Ho trascorso lì sei anni e mezzo, portando avanti la mia ricerca artistica all’interno di Studio Voltaire, un ambiente ibrido tra studi d’artista, not for profit exhibition space, and bookshop fondato da artisti degli anni ’90. Vivere e lavorare a Londra mi ha offerto un campo di sperimentazione vitale, dove ho potuto capire come fibrillava e si evolveva l’arte in quel periodo. Gli anni a Londra sono stati formativi e mi hanno offerto una visione ampia e inclusiva della società, dei suoi linguaggi e del significato di collettività. Successivamente, mi sono trasferita a Barcellona per motivi personali e anche lì ho lavorato per tre anni, trovando una città con un forte scambio culturale, un’altra esperienza formativa preziosa.
A proposito di apertura e contaminazione di linguaggi, come riesci a integrare nelle tue opere pittura e performance?
Mi sono formata in maniera ortodossa con la pittura, affascinata dalle tecniche pittoriche antiche. Tuttavia, durante l’accademia, ho scoperto la videoarte e la performance, media che mi offrivano un’immediatezza più efficace per esprimere i miei concetti. Il disegno è sempre alla base di ogni mia ricerca, da lì si snodano i concetti e prendono forma gli immaginari, e ogni disegno rimane per me sempre un’opera e mai uno schizzo. Durante il master a Londra ho sentito l’esigenza di tornare a lavorare con le mani, reintroducendo la pittura e anche la scultura (quest’ultima sempre come un derivato della pittura) accanto alla performance. Da allora queste tecniche sono diventate essenziali e parallele nella mia pratica artistica, una compenetra e definisce l’altra, creando un dialogo continuo.
Ed è anche il linguaggio del progetto “Afternoon”, sviluppato nella Tenuta Dello Scompiglio di Lucca e raccontato nell’omonimo libro. Un progetto che si concentra principalmente sulla tematica del tempo. Come hai integrato questo concetto nelle tue installazioni e performance?
Ho integrato il concetto di tempo pensando all’installazione come una struttura organizzata attraverso sfasamenti temporali, mettendo lo spettatore in una sorta di crisi temporale. Riporto come esempio la storiella dello scrittore David Foster Wallace dove due giovani pesci incontrano un pesce più anziano che chiede loro: «Salve ragazzi! Com’è l’acqua oggi?» e i due giovani pesci si domandano: «Acqua? Che cos’è l’acqua?»; è un po’ la stessa cosa che succede con il tempo: spesso si danno per scontate delle cose che ci coinvolgono e in cui ci troviamo dentro senza riuscire a comprenderle. Entrando fisicamente all’interno dell’opera, il pubblico si trova immerso in una temporalità estremamente rarefatta, creata dai movimenti lentissimi dei performer – che sperimentano l’evento dell’incontro senza mediazione – e dagli elementi dell’installazione, come i teli che accolgono tracce delle presenze dei performers che scendono perpendicolari al tappeto ricoperto di cenere, il quale ricorda una superficie lunare sconfinata, facendo entrare lo spettatore in un paesaggio infinito. Tutto questo crea un contrasto con il proprio “tempo quotidiano” che ogni spettatore porta con sé dall’esterno, generando una riflessione profonda sul semplice “esistere” su questo mondo. L’opera spinge lo spettatore a sincronizzarsi con questo nuovo ritmo temporale, offrendo un’esperienza immersiva e destabilizzante.
A giugno parteciperai alla mostra a cura di Stefano Collicelli Cagol ed Elena Magini al Centro Pecci dal titolo “Colorescenze. Artiste, Toscana, Futuro”. Che valore dai a queste singole parole e cosa significa per te partecipare a questa mostra?
Partecipare a questa mostra significa riflettere su temi che riguardano il confronto territoriale e il rapporto personale sia intimo che collettivo con il mondo e la società. Siamo artiste con esperienze internazionali, ma anche molto legate al territorio toscano. Le opere esposte offrono una riflessione sulla contemporaneità e un occhio critico verso il futuro, suggerendo la necessità di cambiamenti e nuovi approcci. Il mio lavoro, in particolare, esplora l’importanza dell’incontro e della collaborazione in un momento storico-attuale così delicato e sottoposto a forti destabilizzazioni che mettono in crisi i rapporti e i diritti umani, problematiche che coinvolgono tutti dal singolo all’intera società, sottolineando la necessità di riconnettersi come esseri umani, di unirci, di incontrarci; una tematica che è sempre stata radicata alla base della mia ricerca, l’incontro come evento.